Il diritto alla bigenitorialità e il mito dei tempi di visita perfettamente paritari


Che cos’è il diritto alla bigenitorialità?

La norma: articolo 337-ter del Codice civile

Fondamentale è l’ormai “ex” articolo 155 del Codice civile, che scandisce l’evoluzione delle regole per la gestione dei figli tra genitori separati.

La norma, a seguito della celebre riforma del diritto di famiglia del 1975, stabiliva che il giudice, con la pronuncia della separazione, dovesse decidere a quale coniuge affidare i figli. La regola, cioè, era l’affidamento esclusivo del figlio a un genitore, specificamente al genitore convivente con lui. Il giudice era libero, secondo il suo prudente apprezzamento, di decidere a chi affidare il figlio e determinare la misura e le modalità dei rapporti tra il figlio e il genitore non convivente.

L’introduzione del diritto alla bigenitorialità risale al 2006, quando la legge 54 dell’8 febbraio 2006 modifica l’articolo 155 c.c., stabilendo la preferenza per l’affidamento condiviso e disponendo che a seguito della separazione il figlio avesse diritto di mantenere rapporti continuativi con entrambi, quindi anche col genitore non convivente.

La definitiva consacrazione di questo diritto si ha con la riforma del 2013, che modifica l’articolo 155, introduce gli articoli dal 337 bis al 337 octies e riformula il principio dell’affidamento condiviso concentrando completamente il focus sul figlio minorenne, condensando i principi fondamentali della regolamentazione dei rapporti di famiglia dopo la separazione nell’articolo 337 ter del Codice civile che così recita, al primo comma:

Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

La norma attuale ha subito delle modifiche nel corso degli anni, ma è rimasta identica nella sostanza e nella volontà di affermare il principio secondo il quale il figlio minore, a seguito della separazione dei propri genitori, ha diritto di mantenere rapporti con entrambi il più possibile equilibrati e continuativi.

Il titolare del diritto è il figlio, non il genitore non convivente

Come abbiamo visto dall’analisi dell’articolo 337 ter, il diritto alla bigenitorialità è un diritto del figlio, non del genitore.

Ciò significa che quando sentiamo un genitore lamentarsi del giudice che ha stabilito un diritto di visita non paritario, invocando la lesione del diritto alla bigenitorialità, stiamo sentendo una sciocchezza. Il genitore, infatti, non potrebbe lamentarsi della lesione di un diritto che non è suo.

D’altra parte a suggerirlo è lo stesso nome, che rimanda ai rapporti con entrambi (bi) i genitori, per cui è un diritto che può essere vantato, in linea di massima, dal minore nei confronti dei genitori.

I destinatari riflessi della norma: il giudice e l’altro genitore

Questo diritto ha riflessi verso terzi, poiché essendo il figlio minorenne, naturalmente non può esercitare il proprio diritto e devono essere altri a provvedere.

  • In primo luogo il destinatario è il giudice: quando la coppia si separa, è il giudice a determinare il calendario delle visite del figlio presso il genitore non convivente. La norma si rivolge allora al magistrato, e gli dice: attenzione, poiché tu devi agire nell’interesse del figlio, sappi che il figlio ha questo diritto, il diritto alla bigenitorialità, e che questo diritto deve essere rispettato, per cui, in linea di massima, nel fissare il calendario delle visite bisogna garantire che il figlio mantenga rapporti equilibrati (ossia tendenti al 50 e 50) con entrambi i genitori.

Ma, c’è un ma.

Essendo il figlio il focus della norma, se una regolamentazione equilibrata e tendente al 50 e 50 nello specifico non è nell’interesse del figlio, allora il giudice –non può, ma- deve discostarsi da questo principio e stabilire tempi di visita pur sempre continuativi, ma non paritari: si pensi al caso di un neonato che necessiti dell’allattamento materno, oppure all’ipotesi in cui due genitori vivano in città molto distanti, per cui il figlio sarebbe stressato dall’affrontare continui viaggi (il cosiddetto figlio – “pacco postale”!).

  • Il secondo destinatario indiretto è il genitore. Il genitore, come legale rappresentante del minore, può lamentare la lesione del diritto di quest’ultimo alla bigenitorialità, in due modi:

– sia chiedendo al giudice di modificare il calendario delle visite, nel caso in cui non vi sia alcuna ragione per discostarsi dal principio delle visite equilibrate stabilito dall’articolo 337 ter del Codice civile (ad esempio, genitori che vivano a pochi minuti di distanza, entrambi idonei e ai quali il minore sia molto legato; caso del figlio ultra-dodicenne che chieda di vedere entrambi in maniera eguale e il giudice si discosti senza motivo dalla sua volontà);

– sia chiedendo al giudice di condannare il genitore che si rifiuti di portare o lasciare il figlio con l’altro genitore.

Quale condanna? Nel caso di violazione del provvedimento vi è anche una sanzione penale, ma civilisticamente parlando il riferimento è all’articolo 473-bis.39 del Codice di procedura civile, che prevede la condanna al pagamento di una somma a titolo di risarcimento nei confronti del figlio (e ben capiamo il perché, essendo il diritto alla bigenitorialità un diritto del figlio) o nei confronti del genitore.

Perché un risarcimento nei confronti del genitore?

È importante sapere che in linea di massima il genitore non ha diritti nei confronti del figlio, ma solo doveri. Tuttavia, ha certamente diritti verso terzi a che questi non ostacolino i suoi rapporti col figlio: vi è cioè un diritto del genitore al rispetto della vita privata e familiare, che comprende i rapporti tra genitore e figlio, che nessuno può violare, né lo Stato –e quindi la magistratura- né l’altro genitore.

Si può usare il diritto alla bigenitorialità per costringere il genitore a stare col figlio?

La risposta, alla luce di quanto illustrato, è certamente negativa.

Il diritto alla bigenitorialità è un diritto del figlio: è immediato comprendere che non rientra nell’interesse del figlio trascorrere del tempo con un genitore che lo rifiuta, che durante il tempo di permanenza si dedica ad altre attività e considera le visite come una costrizione. Né d’altra parte si può usare il diritto alla bigenitorialità nel senso opposto, per costringere il figlio a stare col genitore, essendo chiaro che il titolare del diritto –il figlio- non lo invocherebbe mai contro il proprio interesse.

Come si concilia questo con il fatto che il genitore ha solo doveri verso i figli minori?

Vi sono doveri immediatamente coercibili, ossia che, se non adempiuti, possono giustificare un ordine del giudice che costringa il genitore a fare ciò che stabilisce la legge, e doveri che non sono immediatamente coercibili, relativamente ai quali, dunque, il genitore inadempiente non può subire una “costrizione” dal giudice.

In altre parole, il giudice –e di conseguenza il genitore che si rivolge al giudice- non può costringere il genitore all’adempimento di qualsiasi dovere verso i figli: doveri come l’educazione, l’assistenza morale, l’ascolto, non sono affatto coercibili.

Non si può costringere un genitore ad amare il figlio, né ad essere responsabile e a prendersene cura regolarmente. La stessa Cassazione ha stabilito che le sanzioni di coercizione indiretta (ossia volte a costringere un soggetto a fare una cosa che solo lui può fare –per cui pertanto non basta pagare un’altra persona per farlo-), nella specie la condanna al pagamento di una somma per ogni giorno di ritardo nella visita, non sono applicabili al genitore che rifiuti di vedere il figlio.

Per questo motivo, se un genitore volesse vedere i figli solo nel weekend, e ai figli giovassero queste visite, seppur ridotte, non sarebbe possibile chiedere al giudice un calendario di visite diverso, tendente al paritario.

La mancata visita del figlio rileva solo se protratta e a certe condizioni, ossia qualora concretizzi una mancanza di interesse tale da giustificare provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale, oppure concretizzi la violazione di diritti costituzionali del figlio che giustifichino una condanna al risarcimento del danno non patrimoniale.

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